Inibire l’aggregazione e non la sintesi del peptide ß-amiloide: un “must” nello sviluppo di farmaci “disease modifiers” nella malattia di Alzheimer
Ferdinando Nicoletti
Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia, Università Sapienza di Roma; IRCCS Neuromed, Pozzilli
Gli investimenti da parte dell’Accademia e delle Industrie Farmaceutiche nel tentativo di produrre farmaci che rallentano la progressione della malattia di Alzheimer rappresentano probabilmente il più grande flop economico nel campo delle neuroscienze negli ultimi 25 anni. Nonostante gli incoraggianti dati ottenuti nei modelli animali e negli studi clinici di fase 1 e fase 2, nessuno dei farmaci sviluppati sinora ha mostrato efficacia come “disease modifier” (modificatore dello stato di malattia) negli studi di fase 3, e, a tutt’oggi, gli unici quattro farmaci approvati e rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale (donepezil, galantamina, rivastigmina e memantina) hanno mostrato solo effetti sintomatici ristretti agli stadi lievi e moderati della malattia di Alzheimer. Considerato che i laboratori più titolati nel mondo ottengono congrui investimenti per la ricerca preclinica della malattia di Alzheimer, la mancanza di un valido “prodotto” farmaceutico suggerisce che esistono dei “bias” nella strategia di ricerca e che probabilmente bisogna rivedere in modo critico alcuni dei “dogmi” della fisiopatologia della malattia di Alzheimer.
Uno dei problemi relativi alla ricerca di base e alla ricerca preclinica è la mancanza di validi modelli cellulari e animali di malattia di Alzheimer. La maggior parte degli studi di neurotossicità in vitro sono eseguiti su colture di neuroni corticali o ippocampali o su linee cellulari di neuroblastoma trattate con aggregati di peptide ß-amiloide (Aß). Le colture primarie sono cellule isolate dal loro contesto biologico ed esaminate in uno stadio precoce di sviluppo (la malattia di Alzheimer colpisce i neuroni maturi), mentre le linee di cellule tumorali o di neuroni immortalizzati hanno caratteristiche biologiche completamente diverse rispetto ai neuroni che degenerano progressivamente nel cervello di individui affetti da malattia di Alzheimer. I modelli animali sono rappresentati da topi transgenici che esprimono varianti mutate di APP (proteina precursore dell’amiloide), presenilina 1 (la proteina maggiormente associata alle forme genetiche di malattia di Alzheimer), e proteina Tau (mutata nelle taupatie ma non nella malattia di Alzheimer). I topi transgenici sviluppano i principali “hallmarks” istopatologici della malattia di Alzheimer (cioè i depositi di sostanza amiloide e i grovigli neurofibrillari), ma raramente presentano fenomeni di neurodegenerazione probabilmente per la limitata durata di vita. A volte si utilizzano topi o ratti wild-type iniettati in acuto con aggregati di peptide Aß nel parenchima cerebrale. Non è necessario essere ricercatori per capire come l’iniezione intracerebrale di peptide Aß riproduca solo in minima parte la complessità degli eventi patofisiologici alla base della malattia di Alzheimer. Purtroppo ratti e topi non sviluppano spontaneamente la malattia perché il peptide Aß dei roditori è meno incline alla formazione di aggregati rispetto a quello umano.
Un altro “bias” nella ricerca clinica è la selezione di pazienti con diagnosi clinica di malattia o talvolta con diagnosi di MCI (“mild cognitive impairment”) amnestico, una condizione clinica ad alto rischio di progressione in malattia di Alzheimer. Sfortunatamente la patologia ha il suo esordio anni prima rispetto alla diagnosi clinica, e farmaci neuroprotettivi o comunque in grado di rallentare la progressione di malattia dovrebbero essere sperimentati decine di anni prima rispetto all’esordio clinico. Si cerca oggi di reclutare pazienti a rischio di sviluppare la malattia, per esempio individui omozigoti per il gene che codifica per l’ApoE4 (gene ε4) o con mutazioni patologiche della presenilina 1 o presenilina 2 (identificati sulla base dei registri delle forme genetiche della malattia di Alzheimer) per iniziare il trattamento con farmaci potenzialmente protettivi quanto più precocemente possibile. Tali studi sono difficili sotto il profilo farmaceutico perché richiedono il trattamento prolungato di soggetti che potrebbero non sviluppare la malattia (nel caso degli omozigoti ApoE4) e tempi molto lunghi di analisi clinica e di follow-up.
Un’altra possibile ragione degli insuccessi clinici (che personalmente condivido) è l’errata strategia di ricerca. Come precedentemente osservato, la malattia di Alzheimer è caratterizzata dalla formazione di aggregati di peptide Aß formato da 42 aminoacidi (peptide Aß1-42) nel parenchima cerebrale e di aggregati intracellulari della proteina Tau fosforilata (i cosiddetti grovigli o gomitoli neurofibrillari). Si è discusso a lungo su quale di questi due “hallmarks” fisiopatologici fosse all’origine della malattia e per molto tempo i ricercatori del settore si sono divisi in “baptisti” (sostenitori del ruolo primario svolto dalla proteina amiloide) e “tauisti” (sostenitori della proteina Tau). Gli studi di genetica molecolare hanno dimostrato inequivocabilmente che la formazione di aggregati di peptide Aß è l’evento patofisiologico primario nella malattia di Alzheimer (Karch et al., 2014). Il peptide Aß1-42 si forma per idrolisi del suo precursore (“amyloid precursor protein” o APP) da parte di BACE-1 e del complesso della γ-secretasi che comprende preseniline 1 e 2, nicastrina, APH-1 e PEN-2. Mutazioni di APP, presenilina 1, o presenilina 2 sono associate a forme genetiche di malattia di Alzheimer a trasmissione autosomica dominante (sono state identificate due mutazioni del gene che codifica per l’APP a trasmissione autosomica recessiva) (Karch et al., 2014). Se prodotto in eccesso, o se sono presenti sostanze pro-aggreganti, il peptide Aß1-42 forma aggregati di crescente peso molecolare. Gli oligomeri formati da 2/10-12 monomeri esercitano azione neurotossica determinando disfunzione sinaptica, iperfosforilazione della proteina Tau e morte neuronale. Gli aggregati a più alto peso molecolare (ad esempio, le protofibrille e le fibre amiloidi che sono presenti nelle placche senili e si colorano con il rosso congo e la tioflavina-S) non causano neurotossicità diretta, ma possono essere sede di fenomeni infiammatori che contribuiscono alla patogenesi della malattia di Alzheimer.
Unisex da pacco Pink Calzini 422 Puma 3 Sport Lady Sono stati sviluppati diversi inibitori o modulatori di BACE-1 e della γ-secretasi nel tentativo di ridurre la formazione del peptide Aß1-42. I risultati degli studi clinici sono stati deludenti e alcuni dei farmaci sviluppati (ad esempio l’inibitore della γ-secretasi, semagacestat) hanno peggiorato il quadro clinico della malattia negli studi di fase 3. Gli anticorpi monoclonali diretti nei confronti del peptide Aß1-42 vengono oggi considerati come la più concreta speranza terapeutica nella malattia di Alzheimer. Tuttavia, le aspettative della comunità scientifica sono state disattese dai risultati negativi dello studio di fase 3 con solanezumab (un anticorpo monoclonale umanizzato diretto nei confronti della forma monomerica e delle forme aggregate del peptide Aß1-42) in pazienti con forma lieve di malattia di Alzheimer. Forse non si è tenuto conto del fatto che il monomero del peptide Aß1-42 è prodotto fisiologicamente nel Sistema Nervoso Centrale e presumibilmente svolge un ruolo importante nella biologia delle cellule nervose. L’aggregazione del peptide da un canto determina la formazione di specie oligomeriche tossiche, ma dall’altro porta ad un depauperamento della forma monomerica Aß1-42 che potrebbe contribuire alla patofisiologia della malattia di Alzheimer se la forma monomerica del peptide esercita un’azione biologica importante.
Nella malattia di Alzheimer (B) il monomero del peptide ß-amiloide si aggrega formando oligomeri (oAß1-42), che interagiscono con il recettore metabotropico del glutammato mGlu5 e con la proteina del prione fisiologica (Prpc) determinando il reclutamento della tirosin chinasi Fyn, e l’attivazione dell’idrolisi del fosfatidilinositolo-4,5-bisfosfato con produzione di inositolo-1,4,5-trisfosfato (InsP3) ed aumento del Ca2+ intracellulare (Um et al., 2013 ; Hu et al., 2014). Questi processi biochimici causano disfunzione sinaptica e morte neuronale. Il depauperamento di mAß1-42 conseguente alla formazione di oAß1-42 limita l’attivazione del recettore di tipo I per l’IGF e il trasporto di glucosio all’interno del neurone (Giuffrida et al., 2015). Il risultato è una ridotta produzione di ATP in condizioni di attivazione sinaptica ed un aumento della fosforilazione di Tau. AD = malattia di Alzheimer.
Lady Pink Unisex pacco Calzini 3 Puma 422 Sport da Il gruppo di ricerca diretto dalla Prof.ssa Agata Copani dell’Università di Catania (uno dei maggiori esperti italiani nello studio della malattia di Alzheimer) ha di recente dimostrato che la forma monomerica del peptide Aß1-42 stimola la captazione di glucosio nelle cellule nervose attivando i recettori di tipo I per l’IGF attivato prevalentemente dall’IGF-I (fattore di crescita simile all’insulina di tipo I o somatomedina C). Il recettore di tipo I per l’IGF fa parte della famiglia dei recettori per l’insulina, ed opera attraverso l’attività tirosin chinasica promuovendo la traslocazione del trasportatore neuronale per il glucosio, GLUT3, dal citosol alla membrana plasmatica (Giuffrida et al., 2015). Il trasportatore si rende quindi disponibile per la captazione di glucosio nelle cellule nervose durante l’attivazione sinaptica. Tale meccanismo non deve essere confuso con il trasporto del glucosio attraverso la barriera emato-encefalica, che è notoriamente indipendente dall’attività dei recettori per l’insulina. L’importanza del meccanismo suddescritto deriva da una serie di studi condotti in colture di cellule nervose in cui la captazione del glucosio è stata stimolata da agenti depolarizzanti (in particolare, alte concentrazioni di ioni potassio). In tali circostanze, l’ingresso del glucosio nelle cellule nervose è prevenuto dall’inibizione della γ-secretasi, uno degli enzimi responsabili della formazione del peptide Aß1-42 (Giuffrida et al., 2015). Una riduzione della captazione cerebrale di glucosio si osserva nei pazienti affetti da demenza di Alzheimer e precede l’esordio clinico della malattia.
Un ridotto trasporto del glucosio nelle cellule nervose, conseguente alla deplezione della forma monomerica di peptide Aß1-42, renderebbe il neurone privo della sua principale risorsa energetica e potrebbe anche determinare iperfosforilazione della proteina Tau. Una piccola percentuale del glucosio intracellulare è infatti metabolizzato attraverso la via delle esosamine che porta alla formazione di UDP-N-acetilglucosamina, un substrato dei processi di glicosilazione proteica mediata dall’enzima OGT. La glicosilazione e la fosforilazione della proteina Tau sono due processi biochimici mutualmente esclusivi, e, quindi, la ridotta glicosilazione conseguente al ridotto ingresso di glucosio nella cellula favorisce l’iperfosforilazione della proteina Tau e la formazione dei grovigli neurofibrillari (Figure A, B).
Alla luce di queste considerazioni forse non è razionale lo sviluppo di farmaci che inibiscono la produzione del peptide Aß1-42 (quali inibitori di BACE-1 e della γ-secretasi) come potenziali “disease modifiers” nella malattia di Alzheimer. Inoltre, anticorpi monoclonali che non discriminano tra forma monomerica e aggregati di peptide Aß1-42 potrebbero interferire negativamente con il legame fisiologico del monomero del peptide Aß1-42 con il recettore di tipo I per l’IGF. L’adecunumab, un anticorpo monoclonale interamente umano diretto nei confronti degli aggregati ma non dei monomeri di peptide Aß1-42 ha mostrato risultati incoraggianti in uno studio clinico di fase 1b (Sevigny et al., 2016).
La terapia sperimentale della malattia di Alzheimer dovrebbe essere principalmente indirizzata verso lo sviluppo di farmaci che inibiscono l’aggregazione patologica del peptide Aß1-42. Tale processo è favorito dai metalli pesanti, dall’ApoE4 (uno dei principali fattori di rischio della malattia di Alzheimer), e dai glicosaminglicani (GAG). L’attività pro-aggregante dei GAG dipende dal grado di solfatazione, un processo stimolato dall’ApoE4. Un farmaco commercialmente disponibile, il 3-amino-1-propan sulfonato (omotaurina o tramiprosato), agisce come inibitore dell’aggregazione del peptide Aß1-42, legandosi alla regione del peptide che interagisce con in GAG (Gervais et al., 2007). Il farmaco ha mostrato azione terapeutica significativa in pazienti ApoE4+ affetti da malattia di Alzheimer in uno studio di fase 3 (Abushakra et al., 2016). Inoltre, recenti dati ottenuti dal gruppo di ricerca del Prof. Spalletta presso l’IRCCS Santa Lucia di Roma hanno dimostrato che il trattamento con omotaurina attenua la riduzione del volume dell’ippocampo e migliora la memoria episodica in pazienti affetti da MCI amnestico (Spalletta et al., 2016). Tali dati incoraggiano l’uso degli inibitori dell’aggregazione proteica nel trattamento “disease modifier” della malattia di Alzheimer.
In conclusione, il fallimento della maggior parte degli studi clinici sulla malattia di Alzheimer – ed il crescente pessimismo all’interno della classe medica – deriva probabilmente non solo dal tardivo intervento terapeutico, ma anche da una strategia farmacologica sbagliata fondata sul presupposto che il peptide Aß1-42 è dannoso. L’adozione di una strategia farmacologica basata sugli inibitori dell’aggregazione del peptide Aß1-42 o su anticorpi monoclonali diretti esclusivamente nei confronti degli aggregati proteici potrebbe rinnovare la speranza di poter rallentare la progressione della malattia di Alzheimer.
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